Durante il periodo più acuto della pandemia e ancora in questi giorni si è sviluppato nel nostro Paese e nel mondo un ampio e acceso dibattito sulla possibilità di utilizzare nelle fasi post-lockdown delle app di tracciamento cioè sistemi di rete che possono identificare i contatti con possibili portatori del virus. Al di là delle problematiche giuridiche relative alla procedura di attuazione le questioni più spinose attengono al merito e si ricollegano al grande tema della tutela della privacy. Senza dubbio un diritto fondamentale dell’individuo e un pilastro del pensiero liberale che segna il discrimine tra i sistemi democratici e quelli dittatoriali, ma questo diritto è già da tempo in grande attacco (o, quantomeno, in grande evoluzione) massacrato dalla rete e dai big data.
Facciamo un po’ di storia. Per decenni uno dei principali principi ispiratori delle leggi a tutela della privacy è stato lasciare il controllo ai singoli individui consentendo loro di decidere se, come e da parte di chi potevano essere processate le proprie informazioni personali. Nella prima fase dell’era di Internet questo encomiabile ideale si è trasformato nel meccanismo burocratico del “consenso informato”. Nell’era dei social e dei “big data” il consenso informato non regge più sia per l’enormità degli individui coinvolti (quasi 4 miliardi e 400 milioni connessi alla rete, dati del 2019; di cui circa un miliardo e 800 milioni solo attraverso Facebook, dati del 2021) sia perché il grosso del valore dei dati raccolti dalle piattaforme sta in utilizzi secondari che, spesso, non si potevano nemmeno immaginare al momento della raccolta dati.
E’ quindi chiaro che, in questo scenario, la tutela della privacy si deve necessariamente spostare sempre più dal consenso individuale espresso nel momento della raccolta alla responsabilizzazione degli utilizzatori dei dati per quello che fanno. E che, deve essere ben chiaro, hanno sempre saputo quello che facevano (nonostante quello che Mark Zuckerberg va dicendo e scrivendo da tempo). Al riguardo, voglio ricordare le parole pronunciate qualche anno fa (nel giugno 2015, quando il tema del furto dei dati via social non era nemmeno alle viste) da Tim Cook già allora ceo di Apple (e già allora uno degli uomini più influenti al mondo) per mettere in guardia i propri clienti – ma in realtà tutti i navigatori del web – sui rischi crescenti per la loro privacy.
(Nella foto: Mauro Masi, Presidente di Consap, delegato italiano alla Proprietà intellettuale)
Cook, senza fare alcun nome specifico, ebbe da dire con molta chiarezza: «attenzione, alcune delle società più importanti e di successo hanno costruito il loro business cullando i clienti con false rassicurazioni sulle informazioni personali e… un giorno o l’altro i clienti le vedranno per quello che sono realmente, sarà un impatto molto duro». Quindi si può (anzi, si deve) approfondire ogni aspetto delle possibili app di tracciamento senza però dimenticare che il mondo in cui vivevamo anche prima della pandemia ha già profondamente (e, forse, irreversibilmente) cambiato il concetto di privacy individuale.
di Mauro Masi (Italia Oggi del 25 settembre 2021)